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23/04/15 L'ultima stazione del mio treno

L’onda lunga

L’onda lunga

I passi pesanti di chi torna a casa dopo una lunga giornata urlano forte sotto i portici, sui marciapiedi, negli androni dei palazzi, sui pianerottoli davanti agli appartamenti. I passi pensanti di chi torna a casa urlano storie belle e drammi quotidiani. I passi pensanti di chi torna a casa si perdono nelle ombre e nell’onda lunga che tutto trascina e sbatte sopra morbidi giacigli, in attesa del momento perfetto che è l’ultimo respiro prima di dimenticare tutto e attendere la luce del sole col suo primo caldo raggio sulla pelle. Un altro giorno, altre storie, drammi e tutto ciò che è fra la luce e l’ombra, sì, ancora quell’ombra. La nostra, dannata, maledetta, che non possiamo dimenticare.

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20/04/15 I passeggeri del mese # , , ,

I passeggeri del mese: Francesca Marzia Esposito

I passeggeri del mese: Francesca Marzia Esposito

Oggi parliamo molto volentieri con Francesca Marzia Esposito. Vive a Milano, scrive e insegna danza. Si è laureata al Dams di Bologna, ha conseguito un master in Scrittura per il Cinema all’Università Cattolica di Milano. Alcuni dei suoi racconti sono stati pubblicati sulle riviste: Granta, ‘tina, Colla, GQ. Da pochi giorni ci ha consegnato il suo romanzo “La forma minima della felicità” edito da Baldini&Castoldi.

Chi è Francesca Marzia Esposito?

Ti rispondo così: non ne ho la più pallida idea. Probabilmente avessi avuto una concezione definita di me, non mi sarei messa a scrivere. Prendo a prestito le parole della Didion: “Se avessi avuto in dono un accesso anche solo limitato alla mia mente, non avrei avuto alcun motivo di scrivere. Scrivo esclusivamente per comprendere cosa sto pensando, cosa sto facendo, e cosa significa per me. Quello che desidero e quello di cui ho paura.”

Nel tuo romanzo “La forma minima della felicità” ci racconti la storia di Luce, una donna che vive rinchiusa nella propria casa e non fa altro che fissare la televisione sempre accesa sul canale delle televendite. La sua vita un giorno è sconvolta dall’arrivo di Viola, la figlia del fratello della protagonista. Viola ha scelto di non parlare. Ci vuoi raccontare com’è nato questo romanzo e i suoi personaggi?

Ho iniziato a scrivere “La forma minima della felicità” partendo da una scena che avevo in mente. Un fotogramma piantato al centro della testa. Una donna chiusa in casa, stesa sul divano davanti a una tv che trasmette senza volume la televendita di anelli e braccialetti. È rimasta questa foto mentale, impressa lì in alto, all’altezza della mia fronte, fissa per giorni. L’immagine non se ne andava, quindi ho iniziato ad allargare l’inquadratura e ho visto che la casa era sottosopra, distrutta, libri a terra, mensole appoggiate in verticale, una macchia di muffa sul muro a forma di Africa, nel cassetto delle posate i soldi arrotolati, il calendario appeso in cucina vecchio di anni. Tutto spostato male, tutto fermo. Un ambiente, più che abitato, disabitato da una donna. Poi avevo un racconto scritto anni fa, si intitolava Smarties (è diventato il capitolo del flashback, la doppia tragedia dei fratelli piccoli, Yuri che fa la scaletta e ingoia gli Optalidon scambiandoli per i confetti al cioccolato, e Luce che viene dimenticata in macchina nel parcheggio dell’ospedale). E c’era una cosa che mi colpiva mentre buttavo giù la prima bozza del romanzo, i cartelli condominiali, gli avvisi in bacheca giù nell’atrio, quel tono di servizio con il sottotesto Niente-di-personale-ma-vogliamo-dirtelo-ci-dai-fastidio-muoviti-a-fare-come-diciamo-noi. Mi sono divertita ad esasperare la cosa e a utilizzarli per frammentare la narrazione con avvisi assurdi, sgrammaticati nella forma e surreali nel contenuto. E alla fine è comparsa una bambina muta. Una figurina in mezzo al niente, un universo chiuso in se stesso, magnetica e imperscrutabile.

La figura di Viola è la chiave con cui Luce riesce a riaprire le porte della propria vita. Affronti il tema della solitudine, dell’abbandono. Come mai hai voluto toccare questi temi? E’ stata una scelta difficile?

Non si sceglie di affrontare un tema piuttosto che un altro, almeno io non lo faccio, non penso a tavolino Allora, che tema sarebbe interessante affrontare. Ci sono cose che ti toccano più di altre, e persone che sono più propense a interessarsi di qualcosa anziché di altro. In questo caso, la risposta banale che mi viene in mente è che ero attratta da una forma di solitudine molto urbana, milanese. Le nostre vite sono suddivise in un tot di tempo impiegato fuori, delegato per questioni lavorative e sociali, e un tot di tempo passato dentro casa. Perlopiù sopportiamo di fare tutta una serie di eventi sociali perché sappiamo che finalmente a un certo punto potremo battere in ritirata dentro le nostre quattro mura. La casa è il centro fermo della nostra esistenza. Il nostro rifugio. La nostra tregua. Ma che succede se la vita perde l’alternanza tra dentro fuori? Se l’equilibrio sul quale abbiamo imparato a gestirci si sballa e tu decidi che non vuoi più uscire di casa? O meglio, non puoi più uscire di casa, perché la vita là fuori è troppa e insopportabile, produce attacchi di panico, e allora la casa diventa la tua salvezza. Un’arma a doppio taglio perché ti senti libero e al sicuro dentro quella che nel tempo si rivelerà la tua gabbia. Quanto puoi resistere? Ecco, volevo parlare di questo.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Scrivere, e vivere di scrittura, farla diventare una professione. Colmare il divario che c’è tra essere qualcuno che ha pubblicato un libro, e diventare una scrittrice che vive di questo. Ci voglio provare. Ci sto già provando, sono alle prese con una nuova storia, ma è presto per parlarne.

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15/04/15 L'ultima stazione del mio treno

All work and no play makes me a dull boy.

All work and no play makes me a dull boy.

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14/04/15 L'ultima stazione del mio treno

Sliding doors

Sliding doors

Il vero problema di certe porte è che a volte si aprono.

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12/04/15 I passeggeri del mese # , , , ,

I passeggeri del mese: Eleonora Molisani

I passeggeri del mese: Eleonora Molisani

Oggi parliamo con grande piacere con Eleonora Molisani, giornalista e scrittrice, che da poco ci ha regalato il suo esordio letterario, “Il buco che ho nel cuore ha la tua forma” edito Priamo & Meligrana. Eleonora è è caposervizio attualità del settimanale Tu Style di Mondadori. Collabora con il portale di pop-publishing Scrivo.me di Mondadori e con il webmagazine Il Calibro. Online ha fondato la community Natural Born Readers&Writers e il newsmagazine News-tweet. Collabora, come docente di giornalismo multimediale, con la Scuola di comunicazione Mohole di Milano.

Chi è Eleonora Molisani?

Una persona che avrebbe dovuto fare l’avvocato ma ha fortissimamente voluto fare la giornalista, per via del folle amore verso la parola scritta. Che lavora in un settimanale femminile di Mondadori (Tu Style) ma si occupa di comunicazione da più di vent’anni, quindi in modo naturale ha allargato la sua visuale sui social network (con la community Natural Born Readers and Writers e il blog Newstweet.com) e in altri luoghi in cui poter condividere la passione per l’arte e la letteratura. Che di recente ha scritto un libro in cui può esprimere anche quello che difficilmente può fare un giornalista quando racconta le storie altrui: essere la cassa di risonanza di persone e avvenimenti, filtrandoli – liberamente – con la propria sensibilità.

“Il buco che ho nel cuore ha la tua forma”, edito da Priamo & Meligrana ci racconta storie dure, difficili, che ci travolgono con un ritmo mozzafiato e affrontano temi difficili a tinte inquiete. A questo proposito volevo chiedere come mai hai voluto proprio utilizzare la forma del racconto per parlare di queste tematiche? C’è un racconto fra quelli che hai scritto al quale sei maggiormente legata?

Ho scelto il racconto perché è un genere piuttosto bistrattato che io amo molto, come anche la poesia. “I racconti sono operazioni sulla durata, incantesimi che agiscono sul tempo, contraendolo o dilatandolo”, diceva Calvino. Puoi racchiudere un universo di significati in poche lettere, basta avere il coraggio di usarle come un bravo burattinaio, di giocarci senza paura. In realtà quelli de “Il buco che ho nel cuore ha la tua forma” non sono neanche veri racconti ma storie brevissime, abbozzi di trame: ho sottratto materia fino ad arrivare a un prodotto scarno e senza fronzoli. Non volevo intrattenere, ma trattenere il lettore sulle pagine. Almeno per quel pochissimo tempo che serve a leggere questo piccolo libro. Volevo suscitare emozioni forti, produrre qualcosa di potente, nel bene o nel male; una scossa alla coscienza. Per me è stato un esperimento narrativo e un editore in gamba e un bravo editor (Giuseppe Meligrana ed Emanuele Pettener) sono stati miei complici, convinti ed entusiasti. A quale sono più legata? A ogni singola sillaba, ma quello che è piaciuto di più ai lettori è: “La rete ammazza i giovani”. Penso che siano stati colpiti dal fatto che nella vita non si è mai pronti al peggio. È una delle trappole di questo millennio insidioso: pensiamo di essere spregiudicati e capaci di affrontare tutto. Poi, quando gli eventi ci piombano addosso, reagiamo in modo scomposto, non coerente con quello che abbiamo sempre predicato quando quelle cose non riguardavano noi, ma gli altri. Il concetto è ben rappresentato anche nel collage della copertina “Sirena di cuori”, dell’artista Angelo Formica. Questi tempi sono ammaliatori, perché tecnologia e connessioni ci fanno sentire invincibili, ma basta una crepa al guscio che ci protegge ed ecco che i cocci della nostra esistenza si disperdono al vento.

 Ne “Il buco che ho nel cuore ha la tua forma” ci parli di storie legaggti a tematiche tremendamente attuali come omosessualità, schiavitù tecnologica, disagio dei migranti. Da giornalista avrai anche affrontato questi aspetti sotto il profilo della cronaca, credi che parlarne attraverso il racconto possa essere una chiave giusta per aiutare il pubblico a comprenderne le dinamiche?

Più che crederci, lo spero. Nella vita quotidiana il dolore e il disagio altrui ci passano attraverso per pochissimo tempo: quello di una notizia letta sul giornale o sul web, o ascoltata in tv. Poi tutto ricomincia a scorrere veloce, viene archiviato in fretta, quasi niente sedimenta dentro di noi. Il risultato è una specie di anestetizzata indifferenza verso quello che capita, spesso anche sotto i nostri occhi. Raccontare le cose in modo violento, crudo e spietato forse può portare a una riflessione più profonda. O comunque a fermare il pensiero su persone ed eventi che non necessariamente avvengono dall’altra parte del mondo ma magari dall’altra parte del pianerottolo, o dietro la porta accanto. 

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Come dico in Parolibere, l’ultima delle storie del libro, mi sento una specie di mina vagante. Penso che la libertà non consista nel “fare delle cose” ma nell’essere, nel sentirsi, liberi intellettualmente. La mia rotta è la libertà, quindi non so se ci saranno altre parole da dire o se qualcuno avrà ancora voglia di darmi voce. Ho tante idee e cerco di coltivarle ma per ora mi godo la cosa più bella: leggere e ascoltare quello che le persone mi dicono dopo aver letto Il buco che ho nel cuore ha la tua forma. E’ come se quelle pagine venissero riscritte decine di altre volte.

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06/04/15 L'ultima stazione del mio treno

La mia Bologna

La mia Bologna

Bella e dolce Bologna! Vi ho passato sette anni, forse i più belli.” (Pier Paolo Pasolini)

Bologna. Quando mi chiedono quale sia la mia città rispondo così. Per carità, all’anagrafe risulto nato a Sassuolo, produttivo centro del modenese, e risiedo a Ferrara. Sassuolo non l’ho mai vista, ci ho passato solamente un giorno e poco più quando ho visto la luce. Ferrara? Beh la città estense è stata una scelta coniugale. Bologna? Sotto le due torri ho trascorso trent’anni, per scherzo dico sempre che potrebbero intitolarmi una delle palle in Piazza Santo Stefano davanti alle sette chiese.

Quando rispondo ‘Bologna’ alla domanda che vi accennavo prima, il nome della mia città lo pronuncio con un sospiro, come si fa con quello della donna amata, come si fa con il nome della propria mamma o del proprio padre. Bologna è una di famiglia, non è solo la città in cui si abita.

Perché noi bolognesi siamo così, la nostra città la consideriamo un po’ come una seconda madre. Guccini nell’omonima canzone dice della città: “Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po’ molli col seno sul piano padano ed il culo sui colli.”. Un’idea senza dubbio materna, che rende bene il concetto e ne fa comprendere il suo essere una realtà molto florida, non solo per chi vi nasca, ma anche per chi vi intenda stabilirsi, anche solo per brevi periodi. Credo che se ne abbia una visione materna anche per la presenza dei portici, lunghi, interminabili, più di cinquanta chilometri se contiamo anche quelli al di fuori del centro storico, capillari, protettivi e forti, proprio come le braccia di una madre sempre pronta a sostenerci, a stringerci e a proteggerci. Dalla pioggia, dal caldo con la loro ombra, dalla neve, dai pericoli, dalla paura.

Stendhal, nel suo ‘Voyages en Italie’ del 1826 ci regala una sua bellissima e molto condivisibile impressione su questi portici: “Sovente, alle due di notte, rientrando nel mio alloggio, a Bologna, attraverso questi lunghi portici, l’anima esaltata da quei begli occhi che avevo appena visto, passando davanti a quei palazzi di cui, con le sue grandi ombre, la luna disegnava le masse, mi succedeva di fermarmi, oppresso dalla felicità, per dirmi: Com’è bello!”.

La storia dei portici risale al 1288, quando un editto comunale stabiliva che le nuove abitazioni avrebbero dovuto sorgere corredate del porticato che tanta fortuna porterà alla nostra città, il tutto pensato per accogliere un maggior numero di studenti presso la più antica Università del continente e per far sviluppare il commercio. Io ho una visione molto personale che è ben differente, ma che ben s’incardina nelle note caratteriali di noi bolognesi. I portici sono nati per assecondare la curiosità e l’essere espansivo del bolognese tipico, il porticato tende a non far disperdere le persone, le raggruppa, le fa incontrare e rende possibile il dialogo, il fare due parole, par fer dau ciacar. Per rintanarsi in un bar.

Noi bolognesi andiamo spesso al bar, ci piace. Ci andiamo per parlare di sport, di politica, di gnocca, di lavoro, di quel che c’è da dire. Quando ero un cinnazzo, a tredici anni, entrai per la prima volta al Bar Otello in Via Degli Orefici, in quello che è sempre stato un grande punto di ritrovo dei tifosi rossoblu. Ci entrai il giorno in cui comprai il Corriere dello Sport Stadio, ‘quello verde’ dicevo sempre all’edicolante per farmi capire meglio, e vidi l’annuncio dell’ingaggio di Roberto Baggio come nuovo fantasista del Bologna Football Club. Ci entrai per vedere come fosse stata accolta la notizia dai tifosi storici, da quelli over cinquanta, o anche sessanta e più.

In quel bar c’era tutto il fermento che desideravo, c’erano orde di umarells, orde, che discutevano, litigavano, si dividevano. ‘Bollito’, ‘Campione’, ‘Fighetta’, ‘Lu lè l’è fort, etar chè!’, ‘Mo va là, l’è un bagaj adés!’. Ecco, noi bolognesi siamo anche così. La squadra di calcio della nostra città ingaggia un giocatore che può fregiarsi di aver vinto un Pallone d’oro e noi ci dividiamo, litighiamo, sparasecoliamo. Noi bolognesi, a volte, siamo un po’ dei ‘mai goduti’, ma è poi il nostro bello. Accapigliarsi un po’, discutere fra vecchi amici e poi chiedere al barista due frizzantini e brindare per sancire una tregua.

Noi bolognesi siamo tante cose, non solo cose belle però. Ci sono stati anni difficili, nei quali nella nostra città si è sparato, ci si è ammazzati, sono esplose bombe. Ci sono stati anni in cui si credeva la nostra Bologna fosse stata ferita a morte, sfregiata per sempre, ma noi bolognesi ci siamo tirati su le maniche e abbracciati un po’ più forte, sempre più uniti e siamo andati avanti.

Bologna è anche figlia della musica suonata da tanti suoi figli, illustri o meno. Grandi cantautori, gruppi che hanno fatto la storia o truppe scalcinate che hanno mosso i primi passi nelle sale prove impolverate della periferia. Musica leggera, rock duro e tanta allegria.

Lo sport ha sempre avuto un grande peso in città. Calcio, basket e anche il baseball. Il basket ha visto la città dividersi in due fazioni: quelli delle ‘Vu nere’ e quelli della ‘F’, Virtus e Fortitudo. Due grandi squadre che hanno dato vita a memorabili scontri non solo di rilevanza cittadina, ma nazionale. Finali scudetto e di Coppa Italia. Chi non ha poi amato di noi bolognesi i colori rossoblu? Il Bologna Calcio, come diceva Barile, storico tifoso, ‘è una fede’ e lo è per davvero, molti anni bui nell’epoca moderna e troppe poche luci.

A Bologna c’è il mondo intero come mi è sempre piaciuto dire. L’università è la grande porta dalla quale miriadi di ragazzi si sono affacciati sui nostri bei tetti rossi, guardando il verde intenso e profondo delle nostre colline e condividendo con noi momenti speciali che solo una città così piena di vita avrebbe potuto regalare.

Noi bolognesi, così accoglienti, ospitali e sempre pronti ad aggiungere un piatto in più alla nostra tavola.

Noi bolognesi, gente orgogliosa e fiera della propria città, ma senza mai esagerare, sempre col sorriso sulle labbra.

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03/04/15 I passeggeri del mese # , , , ,

I passeggeri del mese: Simona Baldelli

I passeggeri del mese: Simona Baldelli

Oggi parliamo con piacere con Simona Baldelli scrittrice nata a Pesaro, oggi vive a Roma. Il suo esordio è del 2013 con “Evelina e le fate”,  romanzo finalista al Premio Calvino e vincitore Premio John Fante opera prima. Il tempo bambino è il suo secondo romanzo uscito nel 2014. Entrambi i romanzi sono editi Giunti.

Chi è Simona Baldelli?

Va bene, ti rispondo in terza persona, come i matti: “Simona Baldelli nasce a Pesaro, là dove le Marche sfumano nella Romagna.E viceversa. Sa tirare la sfoglia a mano, impastare piadine, fare passatelli. Ha due cagne, Cippa e Olga, che la obbligano ad alzarsi all’alba per andare a scorrazzare per parchi e stagni, e a mettersi al computer ad un’ora decente. Questi, i tratti salienti, il resto è mera cronologia. Ha un diploma d’attrice, esperienze in teatro, radio e cinema. Si occupa anche di regia e drammaturgia. Disordinata per natura e propensione, mette a frutto questa preziosa dote nell’organizzazione di manifestazione ed eventi che, va a capire come, porta comunque a termine. Ama la parola, (pensata, detta, letta, scritta, evocata).” Ho dato un’idea?

Il tuo ultimo romanzo, “Il tempo bambino” edito Giunti, ci racconta una storia di solitudine e di fragilità. Attraverso gli occhi di un uomo che aggiusta orologi e gli occhi di bambine che hanno un’infanzia difficile che le costringe a diventare grandi troppo in fretta. Ci puoi parlare del rapporto tra Mister Giovedì e Regina?

Il rapporto fra i due protagonisti nasce dal bisogno di raccontare che non sempre le famiglie sono un luogo di cura e di amore e che non è vero che “son tutte le belle le mamme del mondo”. Esistono, purtroppo con una certa frequenza, famiglie dove ci si passa di mano in mano il testimone del dolore, una tragica staffetta che a volte finisce negli orrori della cronaca. A volte sono vittime i bambini, a volte madri, mogli, sorelle. Ho voluto inoltre fare una riflessione sull’infanzia, su come la vediamo, in alcuni casi sfruttiamo, le nostre proiezioni sul futuro, insomma. Per raccontare questa realtà “altra” ho cercato di costruire uno spazio molto circoscritto all’interno del quale chiudere tutti i personaggi e richiedendo, al lettore, una buona dose di immedesimazione e di immaginazione, come fossero parte della vicenda. Il lavoro di “immaginazione” (come se i lettori fossero attori che si muovono sulla scena insieme ai personaggi del libro) potremmo riassumerlo così. Immaginiamo quello spazio che, per ogni bambino, rappresenta il mondo. Uno spazio fatto di persone e sentimenti. Aspettative e sogni. Fiducia, rispetto. Un luogo dove le paure diventano sicurezze e, i dubbi, certezze. Dove imparare a diventare grandi. Immaginiamolo confortevole, quello spazio. Abitato da persone sagge, amorevoli e benevole. Che ci proteggono dal buio e da ciò che cattivo. Immaginiamo, per un attimo, che non sia così.Togliamo, in quello spazio, la fiducia e il rispetto. Lasciamo che le paure e i dubbi rimangano tali. Leviamo, ma così, per puro gioco, le persone amorevoli e sagge. Facciamo che restino il buio e le cose cattive. E adesso immaginiamo qualcuno, (io lo chiamo Mr. Giovedì), che è vissuto in uno spazio simile. Per tanto, molto tempo. Un tempo che è passato lento, così lento che non è ancora finito, da non diventare grandi mai. Mr. Giovedì, però, ha imparato a dominarlo, il tempo. L’ha tagliato, sminuzzato, pesato e stimato. Aggiusta e ricostruisce orologi. Mr. Giovedì oggi è un uomo adulto, anche se ha cominciato a rattrappirsi e ha ancora paura del buio. E poi c’è la Regina, che è ancora piccola, anche se vorrebbe sembrare più grande. E lei, invece, vorrebbe che il tempo corresse veloce. Noi non sappiamo se la Regina ha abitato uno spazio amorevole oppure no. Sappiamo solo che ha paura dell’insalata e che non ha mai assaggiato pane, burro e zucchero. E che ha le unghie laccate. Un giorno, si incontrano, fuori dal tempo che noi conosciamo, diverso da quello che abbiamo imparato a sezionare in ore, minuti e secondi. Un tempo che ha alternanze diverse e uniche. È il tempo bambino.

Il tuo primo romanzo “Evelina e le fate”, edito sempre da Giunti, è stato tra i finalisti del Premio Calvino nel 2012 e vincitore del Premio John Fante Opera Prima 2013. Ci puoi raccontare com’è nato questo progetto?

Evelina e le fate, è una storia che mi appartiene da sempre. Evelina è mia madre e, nel ’44, anno in cui è ambientato il mio libro, aveva esattamente cinque anni, come la protagonista della storia. Tutto quello che racconto (fate incluse!) è realmente accaduto o a lei, o ad altre persone che conosco e che ho inserito nella vicenda; il paese descritto, Candelara, è lo stesso in cui mia madre è nata e cresciuta e il casolare dove Evelina vive con la famiglia è esattamente quello in cui è vissuta e che io stessa ho più volte visitato. La voglia di raccontare questa storia mi è venuta qualche anno fa, quando si cominciava a parlare delle celebrazioni per il 150mo dell’Unità d’Italia. Vedendo e ascoltando le molte reticenze al riguardo, i distinguo sull’opportunità o meno di celebrare quella data, le differenze fra chi era “più” o “meno” italiano di altri, ho provato una rabbia grandissima che mi ha fatto decidere di contribuire a quell’evento, nel mio piccolo, raccontando e ricordando uno di quei centocinquanta anni. Per altro, una delle pagine fondanti e principali della storia moderna del nostro Paese. Ma poiché ogni autore che scrive un romanzo “storico”, lo utilizza a metafora del proprio tempo, ho raccontato fatti accaduti settanta anni fa, con la precisa intenzione di parlare di “oggi”.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Scrivere. Sono davvero convinta che il tempo degli scrittori si divida esattamente in due parti: la prima è dedicata alla scrittura, la seconda al tempo che si passa a sognare ad occhi aperti le storie che metteremo su carta. In concreto, sono alle prese con il mio prossimo romanzo che dovrebbe essere pubblicato ad inizio 2016.

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21/03/15 Senza categoria # , , , ,

I passeggeri del mese: Cinzia Bomoll

I passeggeri del mese: Cinzia Bomoll

Oggi parliamo con grande piacere con Cinzia Bomoll regista e scrittrice nata a Bologna, vive tra Piumazzo, New York e Roma. Ci ha regalato due romanzi, “Lei che nelle foto non sorrideva” nel 2006 e “69”, nel 2011, entrambi editi Fazi. Per il cinema ha curato la regia de “il segreto di Rahil” nel 2007 e di “Balla con noi” nel 2011.

Chi è Cinzia Bomoll?

Cinzia Bomoll è una tipa che inventa storie fin da bambina perché fondamentalmente si annoiava nella sua casa solitaria di campagna. Il vizio le è rimasto anche crescendo e vista la sua indole pragmatica da emiliana doc ha cercato di fare di una passione un lavoro. Dunque campa d’arte? No, di un ristorante. La sua altra grande passione infatti è il cibo.

Il tuo ultimo romanzo è “69”. Il 1969 ha visto l’uomo sbarcare sulla Luna, un’evento incredibile che ha segnato una generazione. Nello stesso anno la strage di Piazza Fontana e i preparativi per il tentato golpe fascista dell’anno seguente. Storia ma non solo, con una bellissima Torino sullo sfondo, nel romanzo ci fai vivere anche l’incontro fra Rosa e Corrado. I due ragazzi provenienti da due mondi in grande contrapposizione. Com’è nata l’idea? Qualche tua considerazione su quegli anni così importanti ma ancora oscuri per il nostro Paese?

L’idea di 69 è nata come il desiderio di scrivere un romanzo che avesse per titolo un numero. Uscivo dalla visione di 2046 di Wong Kar wai e mi dissi: un numero che incarni una storia, voglio un numero che contenga in se il tema di un romanzo. 69 è una metafora dell’opposizione speculare. Volevo raccontare di un amore impossibile i cui protagonisti fossero interiormente simili ma socialmente opposti. Ecco 69. Lo sfondo storico fa da contorno ma non è così fondamentale. In realtà è una storia che potrebbe essere benissimo ambientata anche ai giorni nostri. Poi tante cose non sono cambiate. Di quegli anni precisi ciò che era interessante era l’amarezza della fine di anni d’oro come quelli del boom economico e l’inizio di una crisi sociale e politica che è degenerata nella strategia della tensione e negli anni di piombo. Beh, credo che sia tutto ancora molto attuale anche se in forme leggermente diverse.

Il tuo ultimo film è stato “Balla con noi”, la storia di Erica e Marco. Lui vuole emergere nel mondo dell’hip hop e lei in quello della danza. Cosa hai voluto trasmettere con questa pellicola? Quale consiglio daresti a chi oggi vuole emergere nel mondo dell’arte in genere?

Premetto che del film “Balla con noi” non ho scritto la sceneggiatura ma ho realizzato la regia. Ho comunque collaborato al soggetto ideato dal produttore che poi mi ha commissionato il film e posso dire che ciò che ho voluto trasmettere con la pellicola (proprio pellicola sì, uno degli ultimi film italiani girati in 35 mm…) è il lottare con coraggio per avverare i propri sogni. E’ rivolto a ragazzi molto giovani per cui la danza breakdance e hip hop è la manifestazione di un proprio io ribelle e istintivo.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Sto scrivendo un mio nuovo romanzo, sto preparando una graphic novel insieme ad una collega, e sto lavorando su due progetti cinematografici ancora però abbastanza in alto mare. Semino più cose per raccogliere poi. Sono nipote di contadini e credo salti sempre fuori, anche quando scorrazzo per le vie di NY la mia città ideale per complessità e ricchezza di stimoli, più sociali che architettonici, certo. Io continuo a vedere distese sterminate davanti a me (distese che anche tu Paolo ben conosci), un vuoto percepito sempre, che rimane nelle ossa e che sento la necessità di riempire con le mie visioni.

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18/03/15 L'ultima stazione del mio treno

L’uomo al bar

L’uomo al bar

C’era un uomo una volta, seduto al bancone di un bar. L’ho guardato, non beveva, non parlava, era fermo, immobile. Così è rimasto per circa un’ora, io dovevo uscire, avevo un appuntamento, ma prima di andarmene mi avvicinai e, ricordando una frase di Bukowski gli dissi “Se succede qualcosa di brutto si beve per dimenticare. Se succede qualcosa di bello si beve per festeggiare. E se non succede niente? Si beve per far succedere qualcosa.”.

Poi me ne andai.

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10/03/15 I passeggeri del mese # , , , , ,

I passeggeri del mese: Emilio Marrese

I passeggeri del mese: Emilio Marrese

Oggi parliamo con grande piacere con Emilio Marrese, giornalista, firma di Repubblica e scrittore, nato a Napoli, vissuto e cresciuto a Bologna, da qualche anno abita a Roma. Emilio ha da poco pubblicato con Piemme il romanzo “Il buio ha paura dei bambini”.  E’ anche autore di documentari, con il suo Via Volonté n.9, prodotto da Fandango, ha vinto la sezione dedicata del Rome Independent Film Festival e lo scorso anno, ha raccolto un grande successo con “Il Cielo capovolto – 7 Giugno 1964 lo scudetto del Bologna”, docufilm sull’ultima affermazione nazionale della squadra rossoblu, prodotto dalla Cineteca di Bologna in collaborazione con Rai Eri.

Chi è Emilio Marrese?

Uno che detesta autodefinirsi… Adesso dovrei risponderti con qualcosa di brillante, simpatico, accattivante, giusto? Mi hai già messo in difficoltà alla prima domanda. Me la faccio spesso anche io e non so rispondermi. Proviamo. Dunque. Un giornalista che ogni tanto si diverte a fare altro. Uno che cerca di non prendersi troppo sul serio, mai, il che non significa non fare le cose sul serio, anzi: la leggerezza è una cosa serissima.

Il tuo ultimo romanzo, “Il buio ha paura dei bambini” edito Piemme, racconta la storia di Angelo, bambino costretto dagli eventi a cambiare città. Da Napoli arriva a Bologna. Non è solo la città a cambiare, cambia anche famiglia. La storia di Angelo può somigliare a quella di molti altri. Rifiutati, con difficoltà di integrazione. Come mai hai voluto affrontare queste tematiche dal punto di vista di un bambino? Inoltre volevo sapere da te come definisci “il nero” che serba dentro Angelo?

Mi piace, nella vita così come nella letteratura e nella cinematografia, lo sguardo dei bambini sul mondo: acuto, irriverente, sorprendente, puro, diretto. Mi piacciono i loro occhiali, i loro aggettivi. Tengo a precisare che non si tratta di un manuale di sociologia o pedagogia: è un romanzo, leggero con qualche contenuto, che sfiora alcune tematiche ma che fondamentalmente ha l’obiettivo di catturare e intrattenere, di far spendere bene tre ore di tempo al lettore. Tra i temi che sfiora c’è anche l’integrazione, un’esperienza che ho vissuto di persona, essendomi trasferito a Bologna da Napoli quando avevo sei anni. Quindi sono tornato indietro a ripescare sensazioni, umori, difficoltà, sofferenze ma anche soddisfazioni di quel periodo non semplice. Il “nero” di Angelo è come quello che hanno dentro i polpi: è quella scorta di acido, di cattiveria, che tutti o quasi abbiamo dentro e con cui dobbiamo fare i conti. Quella parte di noi che non amiamo e che spesso ci porta a fare o dire cose sbagliate, brutte, pesanti. Per poi quasi sempre pentircene. Ma per molti è un riflesso o un’esigenza fisiologica: preferisco chi butta fuori, piuttosto di chi tiene tutto dentro. Diffido molto più dei secondi, buoni solo all’apparenza. E anche i bambini sono specialisti nel dire cose terribili, ai genitori, ai maestri, ai professori, ai coetanei. È un sistema di autodifesa, anche, quasi grottesco, innocuo, come fanno appunto i polpi o le seppie se si sentono attaccate: uno schizzo nero di nessuna efficacia, fa quasi tenerezza. Buono per gli spaghetti.

Emilio, non sei solo un giornalista sportivo e uno scrittore, ma hai dato un contributo di grande livello anche nel mondo dei documentari. Il tuo primo lavoro è stato “Via Volontè n.9” per Fandango, mentre nel 2014 è uscito “Il cielo capovolto” per la Cineteca di Bologna, in cui ci hai fatto rivivere l’ultimo scudetto del Bologna Football Club. Scrittura e macchina da presa quindi, in quale dei due mondi ti senti più a tuo agio? Ci racconti in qualche parola com’è nato il progetto de “Il cielo capovolto”?

Sicuramente preferisco scrivere, e infatti anche nei documentari è fondamentale la parte di scrittura, di pensiero che c’è dietro. Mi piacerebbe anche saperle realizzare tecnicamente queste idee, ma a ciascuno il suo mestiere e quindi è giusto che le riprese e il montaggio le effettui chi ha più occhio, capacità ed esperienza. “Il cielo capovolto” è nato nell’estate del 2013 dalla voglia di raccontare quell’impresa in modo originale affondando però mani, testa e piedi negli archivi per entrare nel dettaglio e conoscere anche quell’epoca, quel periodo, non solo sul piano calcistico, allo scopo di realizzare un racconto più caldo, completo, emozionante, romantico di quell’avventura. Immodestamente, grazie a Paolo Muran e Cristiano Governa, posso dire che ci siamo riusciti, a giudicare dalla risposta del pubblico.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Sopravvivere in modo sereno e divertente. Ho quattro o cinque idee per un altro docufilm, sportive e non: vediamo quale si riuscirà a concretizzare.

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Fazzoletto da tasca colorato, occhiali sulla punta del naso per darmi un tono, centomila idee nelle tasche e bollicine nel bicchiere. Questo sono io.
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