Paolo Panzacchi
L'ultima stazione del mio treno

Baldini & Castoldi

20/04/15 I passeggeri del mese # , , ,

I passeggeri del mese: Francesca Marzia Esposito

I passeggeri del mese: Francesca Marzia Esposito

Oggi parliamo molto volentieri con Francesca Marzia Esposito. Vive a Milano, scrive e insegna danza. Si è laureata al Dams di Bologna, ha conseguito un master in Scrittura per il Cinema all’Università Cattolica di Milano. Alcuni dei suoi racconti sono stati pubblicati sulle riviste: Granta, ‘tina, Colla, GQ. Da pochi giorni ci ha consegnato il suo romanzo “La forma minima della felicità” edito da Baldini&Castoldi.

Chi è Francesca Marzia Esposito?

Ti rispondo così: non ne ho la più pallida idea. Probabilmente avessi avuto una concezione definita di me, non mi sarei messa a scrivere. Prendo a prestito le parole della Didion: “Se avessi avuto in dono un accesso anche solo limitato alla mia mente, non avrei avuto alcun motivo di scrivere. Scrivo esclusivamente per comprendere cosa sto pensando, cosa sto facendo, e cosa significa per me. Quello che desidero e quello di cui ho paura.”

Nel tuo romanzo “La forma minima della felicità” ci racconti la storia di Luce, una donna che vive rinchiusa nella propria casa e non fa altro che fissare la televisione sempre accesa sul canale delle televendite. La sua vita un giorno è sconvolta dall’arrivo di Viola, la figlia del fratello della protagonista. Viola ha scelto di non parlare. Ci vuoi raccontare com’è nato questo romanzo e i suoi personaggi?

Ho iniziato a scrivere “La forma minima della felicità” partendo da una scena che avevo in mente. Un fotogramma piantato al centro della testa. Una donna chiusa in casa, stesa sul divano davanti a una tv che trasmette senza volume la televendita di anelli e braccialetti. È rimasta questa foto mentale, impressa lì in alto, all’altezza della mia fronte, fissa per giorni. L’immagine non se ne andava, quindi ho iniziato ad allargare l’inquadratura e ho visto che la casa era sottosopra, distrutta, libri a terra, mensole appoggiate in verticale, una macchia di muffa sul muro a forma di Africa, nel cassetto delle posate i soldi arrotolati, il calendario appeso in cucina vecchio di anni. Tutto spostato male, tutto fermo. Un ambiente, più che abitato, disabitato da una donna. Poi avevo un racconto scritto anni fa, si intitolava Smarties (è diventato il capitolo del flashback, la doppia tragedia dei fratelli piccoli, Yuri che fa la scaletta e ingoia gli Optalidon scambiandoli per i confetti al cioccolato, e Luce che viene dimenticata in macchina nel parcheggio dell’ospedale). E c’era una cosa che mi colpiva mentre buttavo giù la prima bozza del romanzo, i cartelli condominiali, gli avvisi in bacheca giù nell’atrio, quel tono di servizio con il sottotesto Niente-di-personale-ma-vogliamo-dirtelo-ci-dai-fastidio-muoviti-a-fare-come-diciamo-noi. Mi sono divertita ad esasperare la cosa e a utilizzarli per frammentare la narrazione con avvisi assurdi, sgrammaticati nella forma e surreali nel contenuto. E alla fine è comparsa una bambina muta. Una figurina in mezzo al niente, un universo chiuso in se stesso, magnetica e imperscrutabile.

La figura di Viola è la chiave con cui Luce riesce a riaprire le porte della propria vita. Affronti il tema della solitudine, dell’abbandono. Come mai hai voluto toccare questi temi? E’ stata una scelta difficile?

Non si sceglie di affrontare un tema piuttosto che un altro, almeno io non lo faccio, non penso a tavolino Allora, che tema sarebbe interessante affrontare. Ci sono cose che ti toccano più di altre, e persone che sono più propense a interessarsi di qualcosa anziché di altro. In questo caso, la risposta banale che mi viene in mente è che ero attratta da una forma di solitudine molto urbana, milanese. Le nostre vite sono suddivise in un tot di tempo impiegato fuori, delegato per questioni lavorative e sociali, e un tot di tempo passato dentro casa. Perlopiù sopportiamo di fare tutta una serie di eventi sociali perché sappiamo che finalmente a un certo punto potremo battere in ritirata dentro le nostre quattro mura. La casa è il centro fermo della nostra esistenza. Il nostro rifugio. La nostra tregua. Ma che succede se la vita perde l’alternanza tra dentro fuori? Se l’equilibrio sul quale abbiamo imparato a gestirci si sballa e tu decidi che non vuoi più uscire di casa? O meglio, non puoi più uscire di casa, perché la vita là fuori è troppa e insopportabile, produce attacchi di panico, e allora la casa diventa la tua salvezza. Un’arma a doppio taglio perché ti senti libero e al sicuro dentro quella che nel tempo si rivelerà la tua gabbia. Quanto puoi resistere? Ecco, volevo parlare di questo.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Scrivere, e vivere di scrittura, farla diventare una professione. Colmare il divario che c’è tra essere qualcuno che ha pubblicato un libro, e diventare una scrittrice che vive di questo. Ci voglio provare. Ci sto già provando, sono alle prese con una nuova storia, ma è presto per parlarne.

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Fazzoletto da tasca colorato, occhiali sulla punta del naso per darmi un tono, centomila idee nelle tasche e bollicine nel bicchiere. Questo sono io.
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