Paolo Panzacchi
L'ultima stazione del mio treno

I passeggeri del mese

01/09/15 I passeggeri del mese # , , , ,

I passeggeri del mese: Gian Luca A. Lamborizio

I passeggeri del mese: Gian Luca A. Lamborizio

Oggi parliamo con grande piacere con Gian Luca A. Lamborizio, alessandrino di nascita e milanese di adozione, ha frequentato il liceo classico e proseguito gli studi in ambito giuridico; ad essi ha affiancato lo studio del Cinese. È autore di “AAA Futuro cercasi. Essere giovani in tempo di crisi.” e collabora con settimanali e con la rivista online MilanoNera, diretta dallo scrittore Paolo Roversi. Da poco è uscito per Eretica Edizioni il suo nuovo libro, “Penombra”.

Chi è Gian Luca A. Lamborizio?

Uno che fino ai tempi del liceo odiava scrivere e ai temi preferiva i riassunti. Passando all’università, oltre ai classici ho iniziato a leggere altri generi, soprattutto thriller e noir e da lì ho iniziato a lavorare con la fantasia. Ad un certo punto, poi, ho deciso di mettermi in gioco in prima persona e tentare di scrivere qualcosa di mio. Dopo la partecipazione ad alcuni concorsi letterari, la collaborazione con settimanali e riviste e l’uscita, tramite self publishing, di “AAA Futuro cercasi. Essere giovani in tempo di crisi”, sono arrivato alla pubblicazione di “Penombra”. Ora la scrittura è parte importante di tutte le mie giornate.

Per il tuo libro “Penombra”hai scelto una chiave narrativa particolare, una serie di racconti collegati tra loro. Come mai hai fatto questa scelta? Ci racconti com’è nato il personaggio del Commissaro Molteni e la sua psicologia?

I cinque racconti di “Penombra”, sebbene trattino di argomenti diversi tra loro e solo in alcuni si trovi lo stesso protagonista, presentano effettivamente degli elementi comuni. In primis, senza dubbio, la penombra, elemento ricorrente e che descrive sia i vari ambienti esterni in cui i personaggi si muovono, sia il lato oscuro che tengono celato dentro di sè. Quindi “penombra” sia in senso fisico che come metafora della psiche umana. E qui arriviamo ad un altro elemento comune e al motivo per cui ho deciso di scrivere più racconti. Il mio intento era proprio quello di far entrare il lettore in alcune menti criminali e malate, non limitandomi però a raccontare “il mostro” e i suoi misfatti, bensì cercando di far capire cosa può spingere delle persone, apparentemente normali, a compiere orrendi delitti.
Il commissario Molteni è, oserei dire, una persona normale, sicuramente non un super eroe o uno 007. Un giovane uomo già segnato da tragici eventi, che affronta i casi che deve risolvere con dedizione, attenzione per i dettagli e molta umanità.

Oltre a essere un autore collabori anche con MilanoNera. Ci parli di questa tua esperienza?

Un’esperienza nata quasi per caso, da una proposta editoriale. Da lì sono entrato in contatto con la mitica Cristina e con la realtà di MilanoNera. Mi occupo di recensire le nuove uscite nel panorama letterario thriller e noir e di intervistare gli autori. Un’esperienza indubbiamente positiva e interessante perché mi permette di leggere molto, di valutare i vari generi e stili e di conoscere alcuni dei più brillanti scrittori del momento, da cui ho sicuramente molto da imparare.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Sono in attesa dei risultati di un concorso nazionale a cui ho partecipato e quindi incrocio le dita. Inoltre sto lavorando ad un nuovo libro, un romanzo questa volta. Si tratta sempre di un noir, lo definirei un noir psicologico, scritto in prima persona, e sarà presente anche il commissario Molteni. Però, anche se non voglio anticipare troppo, posso dire che non sarà lui il protagonista assoluto; questa volta ho voluto cambiare prospettiva.

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24/06/15 I passeggeri del mese # , , , , ,

I passeggeri del mese: Elisabetta Cametti

I passeggeri del mese: Elisabetta Cametti

Oggi parliamo con grande piacere con Elisabetta Cametti, nata 1970 in una piccola località ai piedi del Monte Rosa. Si è laureata in Economia e Commercio e ha intrapreso la strada del marketing. Dopo circa vent’anni di esperienza in importanti multinazionali, ha scelto di dedicarsi alla sua passione di sempre iniziando così la carriera di scrittrice. Con Giunti ha pubblicato i primi due romanzi con protagonista Katherine Sinclaire, “K I guardiani della storia” e il più recente, “K Nel mare del tempo”.

Chi è Elisabetta Cametti?

Sono una donna che viaggia con due bagagli. Quello delle esperienze, che contiene la vita fino a qui vissuta: i traguardi raggiunti ma anche gli sbagli fatti, i momenti da ricordare così come le ferite subite. E quello dei sogni, in cui trovo la forza per non mollare mai.

Il tuo ultimo romanzo è “K Nel mare del tempo”, la protagonista è sempre Katherine Sinclaire, in queste pagine si conferma il forte legame con le civiltà del passato che hai voluto dare a questo tuo progetto, come già emergeva nel tuo primo lavoro “K I guardiani della storia”. Come mai questa scelta? Leggendo i tuoi romanzi si nota la ricchezza di dettagli con cui vengono descritti questi antichi popoli, ci racconti come svolgi e quanta importanza ha la attività di ricerca in tutto questo?

Mi diverte scrivere trame complesse, ricche di personaggi le cui storie si intrecciano, di misteri che mentre si dipanano conducono a nuovi enigmi, di cambi di rotta capaci di sorprendere. E ho voluto che in questa serie di romanzi emergesse una donna: Katherine. Una donna intensa, vera. L’avventura scaturisce proprio dalla volontà di unire l’alta tensione alle verità storiche, gli intrighi a luoghi inaccessibili, l’azione al sentimento. In K I guardiani della storia i protagonisti di sfondo sono gli etruschi. Per K Nel mare del tempo ho scelto il Medioevo e gli ittiti. Il Medioevo lo sentiamo seguendo le tracce di Angelica nei rifugi in cui si era nascosto Fra Dolcino, famoso eretico citato da Dante nell’Inferno, tra i seminatori di discordia. Gli ittiti nutrono la mia passione per i popoli dimenticati dalla storia. Sono vissuti tra il 1800 e il 700 a.C. in Anatolia, l’attuale Turchia. Erano abili guerrieri con smisurate brame espansionistiche ed esperti costruttori di città sotterranee. È stata l’archeologia moderna a portare alla luce templi, bassorilievi, ma soprattutto cinque biblioteche di trentamila tavolette di argilla scritte in un idioma che ha richiesto un secolo di studi per essere decifrato. L’approfondimento è una delle fasi fondamentali per la stesura di un romanzo. E anche una delle più stimolanti. Una volta scelto il periodo storico, leggo quanto disponibile sull’argomento e mi faccio aiutare da esperti. Però non studio solo la storia dei periodi trattati, ma mi affascina investigare su tutti i temi. Così se Patrick Wilde è un archeologo appassionato di nuove tecnologie, esamino gli ultimi rapporti dell’Air Force americana per l’impiego di onde radio che inviate nella ionosfera rimbalzano a terra e consentono di scoprire cavità o bunker sotterranei. Se Isaac Sion vuole capire i segreti nascosti in un dipinto antico mi documento sui metodi scientifici all’avanguardia per l’analisi delle opere d’arte. E in questi giorni sto cercando di districarmi nell’ingarbugliata rete degli hacker. Nulla è lasciato al caso e per me è importante che il lettore lo percepisca.

Kathrine Sinclaire è stata accostata a Robert Langdon, il personaggio di Dan Brown. E’ un paragone che ti piace? Quanto di te c’è in Katherine?

Dan Brown ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. Significa che ha saputo interessare lettori con abitudini, esperienze e culture diverse. Non è facile, non è da tutti. Che dire? È un paragone che profuma di buono. Katherine come me vive di momenti: non guarda mai al passato, non carica il futuro di troppe attese e cerca di dare un senso al presente. Qualsiasi cosa succeda, non smette mai di sognare… perché il tempo dedicato a costruire i sogni ha la forza di rendere possibile l’impossibile. In Katherine le mie esperienze si fondono con le mie aspirazioni. Katherine è la parte di me che non vede ostacoli, che non si preoccupa delle conseguenze. La mia voce amplificata all’ennesima potenza per urlare i valori in cui credo.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

La pubblicazione di una nuova serie di thriller, con una nuova protagonista, sempre con una K nel nome. E la trasposizione cinematografica di K I guardiani della storia e K Nel mare del tempo.

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13/06/15 I passeggeri del mese # , , ,

I passeggeri del mese: Matteo Ferrario

I passeggeri del mese: Matteo Ferrario

Oggi parliamo con grande piacere con Matteo Ferrario, nato nel 1975 in provincia di Milano, dove vive e lavora. Architetto e giornalista, collabora con riviste di costruzioni e di edilizia sostenibile. Ha pubblicato racconti nelle antologie “Via dei matti numero zero” (Terre di Mezzo, 2002), “Racconti diversi” (Stampa Alternativa, 2004) e “Q’anto ti amo” (Damster, 2014). Per Fernandel ha pubblicato il romanzo “Buia” (2014) e il suo ultimo romanzo “Il mostro dell’hinterland”.

Chi è Matteo Ferrario?

Uno che ha iniziato a scrivere storie ai tempi dell’università, mentre studiava architettura, e da allora ha cercato sempre un modo per conciliare questi due mondi. Quando facevo progettazione non era semplice trovare il tempo per scrivere con regolarità, ma è stato in quegli anni che ho pubblicato i primi racconti su antologie collettive e riviste letterarie. Poi ho iniziato a collaborare con riviste tecniche, il lavoro che faccio tuttora, e ho riorganizzato le mie giornate in modo da portare avanti con regolarità i progetti di scrittura. Nel 2014 ho pubblicato il primo romanzo, Buia, e quest’anno è uscito il secondo, Il mostro dell’hinterland.

Il tuo nuovo romanzo “Il mostro dell’hinterland” edito Fernandel, racconta la storia di Riccardo Berio, condannato all’ergastolo. Nelle pagine di questo libro ti sei ispirato a un fatto di cronaca risalente a qualche anno fa. Come mai questa scelta? Inoltre il tutto è ambientato in una Milano che ben conosci. Qual è il rapporto con la tua città?

Il fatto di cronaca a cui il romanzo è liberamente ispirato risale a dieci anni fa. Si era svolto in un’altra parte d’Italia, ma ne ero rimasto profondamente colpito perché il contesto sociale e familiare mi ricordava molto l’hinterland milanese in cui ero cresciuto. Il personaggio di Riccardo, che ha comunque una vita del tutto autonoma, ha iniziato a prendere forma all’epoca, ma un po’ come la protagonista di Buia, il romanzo precedente, ha avuto bisogno di qualche anno per trovare la sua storia. Stavolta ho scelto di partire dalla cronaca perché avevo in mente di scrivere un romanzo meno intimo del primo, più politico e, a dispetto dell’isolamento in cui vive il protagonista sia prima che dopo la sua incarcerazione, più rivolto verso la società e i suoi rapporti di forza. Riccardo vede tutto questo con lucidità ancora maggiore, proprio perché se ne è tirato fuori. I luoghi del romanzo – la cintura esterna di Milano – sono quelli che più conosco, ma anche l’ambientazione naturale per le storie che scrivo: sono convinto che alcune dinamiche di cui mi interessa occuparmi possano essere osservate meglio nei contesti periferici che nei centri delle grandi città. Il personaggio principale de Il mostro dell’hinterland è uno che nella sua esistenza ha sempre cercato di nascondersi, e questo è sicuramente un obiettivo che si può realizzare anche vivendo in mezzo al caos di una metropoli, ma in modi diversi: lì ci si rende invisibili attraverso l’anonimato, mescolandosi con la gente. In una comunità più piccola, come quella dove vive Riccardo, questo non è possibile, perché se partecipi anche solo un minimo alla vita sociale sei sempre individuabile, ed è a questo che lui cerca di sottrarsi, diventando un fantasma. Il mio rapporto con il posto in cui vivo è molto più semplice del suo, nel senso che sono abbastanza vicino a Milano da poterla frequentare con regolarità, ma al tempo stesso mi piace sempre tornare nella tranquillità dell’hinterland, e forse anche per questo non ho mai voluto andarmene.

Nel tuo romanzo c’è un personaggio molto importante, Mara. Ci vuoi parlare di come hai costruito il rapporto tra lei e Riccardo?

A un primo sguardo, Riccardo non è esattamente il tipo da cui ci si aspetta un passato interessante a livello sentimentale, ma in realtà è un personaggio molto complesso, dal carattere chiuso e pieno di segreti, e anche in questo campo riserva delle sorprese. Mara, come dice lui stesso in un passaggio, sarebbe stata la sua anima se ne avesse avuta una. Mi fa piacere che si parli di lei come di un personaggio importante per il romanzo, perché sono d’accordo: è la figura in cui si materializza lo scarto fra l’immagine mediatica del mostro Riccardo Berio e la verità del suo cuore. Nel rapporto con Mara c’è una buona componente di autolesionismo da ambo le parti, e anche un certo numero di occasioni perse, ma resta il fatto che lei rappresenta da sempre l’unica possibilità di salvezza per lui, il solo spiraglio che si è aperto nel corso della sua esistenza, che per altri versi sembra già decisa dall’inizio. Mara è l’opposto di Riccardo: una che non si risparmia e va incontro alla vita facendosi male, una ribelle. Sarebbe difficile definire Il mostro dell’hinterland una storia d’amore, ma di certo ne contiene una, come tutti i romanzi e i racconti che ho scritto finora: senza personaggi che amano o almeno ci provano, magari anche fallendo, credo che la letteratura perda gran parte del proprio significato, come la vita.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

In questo periodo sto finendo il lavoro su un racconto, destinato a un’antologia collettiva mystery/noir cui sono stato invitato a partecipare, quindi credo sarà questa la prima uscita dopo Il mostro dell’hinterland. Poi c’è un libro di racconti non di genere ultimato da un po’, con altrettante protagoniste femminili raccontate dalla voce di uomini che ne erano innamorati, dopo la fine di tutto. Nel frattempo ho iniziato un nuovo romanzo. Sarà un terzo esperimento sulla prima persona dopo quelli dei primi due libri, con un protagonista che si rivolge direttamente alla donna della sua vita, in una sorta di confessione. Il suo punto di vista mi interessa in modo particolare, perché è quello del padre di una bambina ancora piccola, che cerca di fare del suo meglio, ma anche quello di un uomo che ha ucciso: uno dei “cuori di tenebra” di cui mi interessa sempre occuparmi, sia come lettore che come autore.

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04/06/15 I passeggeri del mese # , , , , ,

I passeggeri del mese: Andrea Pelacani

I passeggeri del mese: Andrea Pelacani

Oggi parliamo con grande piacere con Andrea Pelacani nato nel 1977, bolognese di Argelato e residente a Poggio Renatico, è tifoso per motivi anagrafici solo dalla seconda metà degli anni Ottanta con il Puffo Marronaro come primo idolo giovanile, allena con passione i pulcini del suo paese d’origine, ama le letture sportive e ha una sola grande certezza: non smetterà mai di seguire il Bologna. Ci ha regalato il suo primo libro, edito Maglio Editore, “Da sindaco della fascia, alla fascia di sindaco – Il Bologna di Carlo Nervo”.

Chi è Andrea Pelacani?

Sono un impiegato postale grande appassionato di letture sportive, in primis di storie di calcio e ovviamente di tutto ciò che concerne il Bologna, di cui sono un tifoso fedele (sono abbonato da oltre vent’anni, ma solo per motivi anagrafici..) e nostalgico. Qualche anno fa, quando il mio palpitante seguire fin da bambino delle sorti di questa squadra si unisce alla mia facilità nel ricordare tanti eventi legati ad una maglia a due ben distinti e imprescindibili colori, l’idea di effettuare un’incursione nel campo della scrittura da vero e proprio protagonista mi entra a gambe unite nel cervello. Si tratta di un’esperienza per me inedita e dal sapore di sfida personale, ma che decido di raccogliere senza paura in quanto mi reputo un discreto “custode della memoria”, una sorta di piccolo “Civ” della Bassa, giusto per fare un paragone, forse improbabile ma convincente, quasi da Davide (io) contro Golia (Gianfranco Civolani). E poi se qualche amico mi ha affibbiato il soprannome di “Almanacco” un motivo ci deve pur essere… Passare dunque dalla mente alla tastiera diventa semplice ma nello stesso tempo impegnativo. D’altronde, riuscire a coniugare lavoro, famiglia (sono sposato con Federica e abito a Poggio Renatico) e impegni vari (alleno ad Argelato, mio paese d’origine, la squadra locale degli Esordienti) non è mai una formalità.

“Da sindaco della fascia, alla fascia di sindaco” racconta la storia di uno dei calciatori più rappresentativi del Bologna degli ultimi anni, quella di Carlo Nervo. Come mai hai scelto di parlarci proprio di lui? Che ricordo hai di questo giocatore?

Vorrei prima di tutto precisare che non si tratta della classica biografia dedicata ad un calciatore ma il mio è racconto che abbraccia un periodo preciso della storia rossoblu, ovvero dal 1994 al 2007, anni che hanno visto passare da queste parti campioni di rango internazionale e mondiale, oltre a tecnici di valore e dal carisma inequivocabile. Baggio, Signori, Ulivieri, Mazzone non sono affatto nomi messi giù a caso… Carlo Nervo è a mio avviso il giocatore che rappresenta al meglio questa era calcistica e ho cercato quindi di elevare al rango di protagonista proprio lui, l’indimenticata eclettica ala destra vicentina, il recordman di presenze degli ultimi quarant’anni, dalla C alla A con il Bologna, passando per l’Europa e riuscendo persino ad indossare la maglia azzurra della Nazionale. Senza dubbio tra i giocatori più amati di sempre dai tifosi per la professionalità, l’umiltà e l’abnegazione con cui ha solcato per anni il lato destro del campo . Il mio è anche un omaggio indiretto al presidente Gazzoni, l’uomo della rinascita. Se poi c’è stata in seguito una discutibile caduta, questa è un’altra storia. Mi ha inoltre incuriosito il percorso post calcistico di Carlo, diventato primo cittadino del suo paese d’origine, Solagna, e nel contempo imprenditore nel settore dell’arredamento. In poche parole, con questo volume mi sono di fatto autoproclamato portatore sano dell’affetto dei tifosi nei confronti di questo ottimo giocatore, persona gentile e garbata che ho avuto il piacere di conoscere e che nonostante gli anni trascorsi dal suo addio al calcio, non ha lasciato veri e propri “eredi” sul campo. Ali come Nervo da queste parti sono ormai in via d’estinzione.

Nel tuo libro ci hai fatto rivivere i grandi fasti di un Bologna Football Club che ormai sembra svanito nella memoria. Quali episodi, da tifoso, ricordi con maggior emozione del periodo dei rossoblu che hai descritto in queste pagine?

Ce sono vari ma senza alcun dubbio l’incornata rabbiosa di Giorgio Bresciani al Chievo, rete al fotofinish che valse la promozione in A nella stagione 1995-96, occupa il primo posto nella mia personale top five…quell’urlo dello stadio da pelle d’oca perenne ancora non lo dimentico, peccato, che il cross vincente l’abbia effettuato Doni e non Carletto, per non parlare poi dell’arrivo di Roby Baggio, certe sue reti mi hanno addirittura commosso. Il ritorno in Europa con il gol di Nervo a Lisbona. Il 3-0 inflitto alla Juve di Lippi in mezz’ora, la cavalcata europea con la finalissima sfiorata! Momenti intensi di storia rossoblu, nostalgia più che canaglia quando si pensa al presente.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Prima di tutto spero che il Bologna ritorni in fretta agli antichi (ma non troppo) fasti. La nuova società ha tutte le carte in regola per farlo. Dal canto mio,non mi reputo ovviamente uno scrittore ma resto un tifoso devoto. La lettura e la scrittura mi appassionano sempre e al momento sto ricercando e raccogliendo il materiale per un altro progetto, ovviamente sul genere calcistico-letterario.. e quale altrimenti,no? Ho già le idee chiare su come predisporre il lavoro che quando si fa con passione si trasforma sempre in puro divertimento.. se poi in futuro diventerà un libro ne sarò ben lieto… intanto Forza Bologna!!

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28/05/15 I passeggeri del mese # , , ,

I passeggeri del mese: Patrick Fogli

I passeggeri del mese: Patrick Fogli

Oggi parliamo con grande piacere con Patrick Fogli, bolognese nato nel 1971, ingegnere informatico, definibile come uno degli scrittori noir di maggior talento della propria generazione, ci ha regalato libri di assoluto valore come “La puntualità del destino” e “Vorrei essere fumo” entrambi editi Piemme, sino all’ultima opera “Io sono Alfa” edita Frassinelli.

Chi è Patrick Fogli?

Uno che ama scrivere storie, che si guarda intorno. Uno pieno di domande senza risposta e che non smette di farsene di nuove.

“Io sono Alfa” è l’ultimo tuo romanzo. Una storia potente e molto dura. I protagonisti sono Gualtiero, Francesca e Paolo. Tutto comincia con una serie impressionante di esplosioni, una strage dopo l’altra. Com’è nata questa idea? Hai voluto raccontarci le paure che azioni di questo tipo potrebbero scatenare, è stato difficile scrivere queste sensazioni?

È nata con alcune domande. Come reagiremmo di fronte a una minaccia che fa veramente sul serio? Cosa non saremmo mai disposti a perdere del nostro modo di vivere? Che cosa, invece, saremmo disposti a sopportare per una sicurezza vera o presunta? Volevo raccontare una società spaventata, la nostra. Raccontare cosa siamo diventati, la superficialità, l’ignavia, la vigliaccheria. Volevo un libro che ci mettesse a nudo, usando la paura – con cui conviviamo da almeno un ventennio – come catalizzatore.

Gualtiero è un politico, Francesca è un chirurgo e Paolo un giornalista. Come hai costruito i tuoi personaggi? Quali punti hanno in comune?

Semplificando potrei risponderti che il loro punto in comune è Alfa. In realtà sono tutti e tre alla ricerca di un punto di orientamento che non trovano più. Alcuni lo hanno già perso, all’inizio del romanzo, altri lo perderanno per l’arrivo di Alfa e tutti e tre dovranno pensare a cosa siamo diventati, mettendo al centro del ragionamento loro se stessi, la loro paura, la loro rabbia, il loro bisogno di verità, con la maiuscola o senza.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Sto scrivendo una storia che ha a che fare con l’identità, un altro tema che mi interessa molto. E ho qualche romanzo che mi gira per la testa. Vediamo cosa salta fuori.

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01/05/15 I passeggeri del mese # , , , , ,

I passeggeri del mese: Gianluca Mercadante

I passeggeri del mese: Gianluca Mercadante

Oggi parliamo con grandissimo piacere con Gianluca Mercadante, scrittore nato a Vercelli. Ha pubblicato McLoveMenu (Stampa Alternativa, 2002; Premio Parole di Sale), Il banco dei somari (NoReply, 2005), Nodo al pettine – Confessioni di un parrucchiere anarchico (Alacràn, 2006), Polaroid (Las Vegas, 2008), Il giardino nel recinto di vetro (Birichino, 2009), Cherosene (Las Vegas, 2010), Caro scrittore in erba (Las Vegas, 2013), Noi aspettiamo fuori (Effedì Ed., 2014) e Casinò Hormonal (Lite Editions, 2015). Suoi racconti sono inoltre apparsi in antologie, riviste di settore e per il Giallo Mondadori.

Chi è Gianluca Mercadante?

Uno che scrive. O un disadattato mentale, se preferisci.

Il tuo ultimo libro “Casinò Hormonal” uscito per Lite Editions ha come sfondo il mondo delle pellicole a luci rosse, come mai hai deciso di affrontare questo tema? Ci racconti qualcosa dei due protagonisti?

Perché è un tema scomodo e può diventare una bella sfida raccontare un tema scomodo – e sordido, come può apparire il porno – con eleganza, utilizzando lo sfondo dell’industria pornografica allo scopo di far emergere con prepotenza i temi centrali del libro: l’amicizia fra i due protagonisti – il regista Alessandro Lodato, detto Sandrino, e il pornodivo Diego Paloalto -; l’amore fra l’io narrante Diego e sua moglie Tiziana; il bivio esistenziale di un quasi quarantenne che ha fondato la sua vita sul porno e ora si trova diviso su due fronti a risolvere lo stesso problema. Sul set pare abbia infatti qualche calo di virilità. Contemporaneamente, tra le mura domestiche, Tiziana non riesce ad avere da lui il figlio che entrambi desiderano. “Casinò Hormonal” tratta quindi il tema della sterilità maschile cercando di abbatterne innanzitutto la fobia. E, dato che l’ambiente del porno ben si presta a una narrativa di tipo grottesco, lo fa a suon di risate.

Nel tuo pamphlet “Caro scrittore in erba…”, edito da Las Vegas, ci hai raccontato invece il mondo dell’editoria seria e non. Molte persone oggi hanno un libro nel cassetto e si domandano cosa poter fare di quel plico di fogli. Quali consigli puoi dare a questi scrittori in erba?

Senz’altro di non pagare. Un autore può per mille motivi al mondo non fare mai affidamento sulla propria opera letteraria quand’è ora di saldare le bollette, ma di sicuro non deve anche rimetterci. E poi, riflettiamoci un momento: cos’è una casa editrice? Un’azienda. E in quale azienda al mondo il datore di lavoro non si sobbarca il rischio d’impresa? Un editore privato del necessario rischio d’impresa che deve assumersi nell’immettere sul mercato un libro, è come invitato a non promuoverne in alcun modo la diffusione. I suoi soldi se li è presi, s’è già messo in pari. Tanti saluti e grazie. Se il mondo editoriale dovesse sbattervi le porte in faccia dappertutto, andate in tipografia e provvedete in autonomia, piuttosto, ma non finite in pasto a questi caimani dell’editoria a pagamento. Col solo fatto di esigere dallo scrittore esordiente un contributo economico finalizzato alla pubblicazione della sua opera dimostrano quanto di quell’opera gliene freghi.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Sto scrivendo un testo teatrale per una commedia musicale, un’altra produzione dei Banda Putiferio, una band della Brianza con cui da anni sto collaborando. Il nostro ultimo progetto, “Liscio Assassino”, è un libro+cd edito da Zona Edizioni che contiene contributi ad opera di noiristi importanti, quali Massaron, Morozzi, Limardi, Pinketts, Vallorani, e interventi di autentici mostri del teatro italiano come Bebo Storti e Antonio Rezza. Il testo teatrale che sto realizzando è pensato per uno spettacolo nato a sua volta proprio intorno a questo progetto. Nella seconda parte del 2015 dovrebbe inoltre uscire da Las Vegas un mio nuovo pamphlet, strutturato in maniera simile a “Caro scrittore in erba…”. Il tema stavolta sarà però la lettura.

 

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20/04/15 I passeggeri del mese # , , ,

I passeggeri del mese: Francesca Marzia Esposito

I passeggeri del mese: Francesca Marzia Esposito

Oggi parliamo molto volentieri con Francesca Marzia Esposito. Vive a Milano, scrive e insegna danza. Si è laureata al Dams di Bologna, ha conseguito un master in Scrittura per il Cinema all’Università Cattolica di Milano. Alcuni dei suoi racconti sono stati pubblicati sulle riviste: Granta, ‘tina, Colla, GQ. Da pochi giorni ci ha consegnato il suo romanzo “La forma minima della felicità” edito da Baldini&Castoldi.

Chi è Francesca Marzia Esposito?

Ti rispondo così: non ne ho la più pallida idea. Probabilmente avessi avuto una concezione definita di me, non mi sarei messa a scrivere. Prendo a prestito le parole della Didion: “Se avessi avuto in dono un accesso anche solo limitato alla mia mente, non avrei avuto alcun motivo di scrivere. Scrivo esclusivamente per comprendere cosa sto pensando, cosa sto facendo, e cosa significa per me. Quello che desidero e quello di cui ho paura.”

Nel tuo romanzo “La forma minima della felicità” ci racconti la storia di Luce, una donna che vive rinchiusa nella propria casa e non fa altro che fissare la televisione sempre accesa sul canale delle televendite. La sua vita un giorno è sconvolta dall’arrivo di Viola, la figlia del fratello della protagonista. Viola ha scelto di non parlare. Ci vuoi raccontare com’è nato questo romanzo e i suoi personaggi?

Ho iniziato a scrivere “La forma minima della felicità” partendo da una scena che avevo in mente. Un fotogramma piantato al centro della testa. Una donna chiusa in casa, stesa sul divano davanti a una tv che trasmette senza volume la televendita di anelli e braccialetti. È rimasta questa foto mentale, impressa lì in alto, all’altezza della mia fronte, fissa per giorni. L’immagine non se ne andava, quindi ho iniziato ad allargare l’inquadratura e ho visto che la casa era sottosopra, distrutta, libri a terra, mensole appoggiate in verticale, una macchia di muffa sul muro a forma di Africa, nel cassetto delle posate i soldi arrotolati, il calendario appeso in cucina vecchio di anni. Tutto spostato male, tutto fermo. Un ambiente, più che abitato, disabitato da una donna. Poi avevo un racconto scritto anni fa, si intitolava Smarties (è diventato il capitolo del flashback, la doppia tragedia dei fratelli piccoli, Yuri che fa la scaletta e ingoia gli Optalidon scambiandoli per i confetti al cioccolato, e Luce che viene dimenticata in macchina nel parcheggio dell’ospedale). E c’era una cosa che mi colpiva mentre buttavo giù la prima bozza del romanzo, i cartelli condominiali, gli avvisi in bacheca giù nell’atrio, quel tono di servizio con il sottotesto Niente-di-personale-ma-vogliamo-dirtelo-ci-dai-fastidio-muoviti-a-fare-come-diciamo-noi. Mi sono divertita ad esasperare la cosa e a utilizzarli per frammentare la narrazione con avvisi assurdi, sgrammaticati nella forma e surreali nel contenuto. E alla fine è comparsa una bambina muta. Una figurina in mezzo al niente, un universo chiuso in se stesso, magnetica e imperscrutabile.

La figura di Viola è la chiave con cui Luce riesce a riaprire le porte della propria vita. Affronti il tema della solitudine, dell’abbandono. Come mai hai voluto toccare questi temi? E’ stata una scelta difficile?

Non si sceglie di affrontare un tema piuttosto che un altro, almeno io non lo faccio, non penso a tavolino Allora, che tema sarebbe interessante affrontare. Ci sono cose che ti toccano più di altre, e persone che sono più propense a interessarsi di qualcosa anziché di altro. In questo caso, la risposta banale che mi viene in mente è che ero attratta da una forma di solitudine molto urbana, milanese. Le nostre vite sono suddivise in un tot di tempo impiegato fuori, delegato per questioni lavorative e sociali, e un tot di tempo passato dentro casa. Perlopiù sopportiamo di fare tutta una serie di eventi sociali perché sappiamo che finalmente a un certo punto potremo battere in ritirata dentro le nostre quattro mura. La casa è il centro fermo della nostra esistenza. Il nostro rifugio. La nostra tregua. Ma che succede se la vita perde l’alternanza tra dentro fuori? Se l’equilibrio sul quale abbiamo imparato a gestirci si sballa e tu decidi che non vuoi più uscire di casa? O meglio, non puoi più uscire di casa, perché la vita là fuori è troppa e insopportabile, produce attacchi di panico, e allora la casa diventa la tua salvezza. Un’arma a doppio taglio perché ti senti libero e al sicuro dentro quella che nel tempo si rivelerà la tua gabbia. Quanto puoi resistere? Ecco, volevo parlare di questo.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Scrivere, e vivere di scrittura, farla diventare una professione. Colmare il divario che c’è tra essere qualcuno che ha pubblicato un libro, e diventare una scrittrice che vive di questo. Ci voglio provare. Ci sto già provando, sono alle prese con una nuova storia, ma è presto per parlarne.

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12/04/15 I passeggeri del mese # , , , ,

I passeggeri del mese: Eleonora Molisani

I passeggeri del mese: Eleonora Molisani

Oggi parliamo con grande piacere con Eleonora Molisani, giornalista e scrittrice, che da poco ci ha regalato il suo esordio letterario, “Il buco che ho nel cuore ha la tua forma” edito Priamo & Meligrana. Eleonora è è caposervizio attualità del settimanale Tu Style di Mondadori. Collabora con il portale di pop-publishing Scrivo.me di Mondadori e con il webmagazine Il Calibro. Online ha fondato la community Natural Born Readers&Writers e il newsmagazine News-tweet. Collabora, come docente di giornalismo multimediale, con la Scuola di comunicazione Mohole di Milano.

Chi è Eleonora Molisani?

Una persona che avrebbe dovuto fare l’avvocato ma ha fortissimamente voluto fare la giornalista, per via del folle amore verso la parola scritta. Che lavora in un settimanale femminile di Mondadori (Tu Style) ma si occupa di comunicazione da più di vent’anni, quindi in modo naturale ha allargato la sua visuale sui social network (con la community Natural Born Readers and Writers e il blog Newstweet.com) e in altri luoghi in cui poter condividere la passione per l’arte e la letteratura. Che di recente ha scritto un libro in cui può esprimere anche quello che difficilmente può fare un giornalista quando racconta le storie altrui: essere la cassa di risonanza di persone e avvenimenti, filtrandoli – liberamente – con la propria sensibilità.

“Il buco che ho nel cuore ha la tua forma”, edito da Priamo & Meligrana ci racconta storie dure, difficili, che ci travolgono con un ritmo mozzafiato e affrontano temi difficili a tinte inquiete. A questo proposito volevo chiedere come mai hai voluto proprio utilizzare la forma del racconto per parlare di queste tematiche? C’è un racconto fra quelli che hai scritto al quale sei maggiormente legata?

Ho scelto il racconto perché è un genere piuttosto bistrattato che io amo molto, come anche la poesia. “I racconti sono operazioni sulla durata, incantesimi che agiscono sul tempo, contraendolo o dilatandolo”, diceva Calvino. Puoi racchiudere un universo di significati in poche lettere, basta avere il coraggio di usarle come un bravo burattinaio, di giocarci senza paura. In realtà quelli de “Il buco che ho nel cuore ha la tua forma” non sono neanche veri racconti ma storie brevissime, abbozzi di trame: ho sottratto materia fino ad arrivare a un prodotto scarno e senza fronzoli. Non volevo intrattenere, ma trattenere il lettore sulle pagine. Almeno per quel pochissimo tempo che serve a leggere questo piccolo libro. Volevo suscitare emozioni forti, produrre qualcosa di potente, nel bene o nel male; una scossa alla coscienza. Per me è stato un esperimento narrativo e un editore in gamba e un bravo editor (Giuseppe Meligrana ed Emanuele Pettener) sono stati miei complici, convinti ed entusiasti. A quale sono più legata? A ogni singola sillaba, ma quello che è piaciuto di più ai lettori è: “La rete ammazza i giovani”. Penso che siano stati colpiti dal fatto che nella vita non si è mai pronti al peggio. È una delle trappole di questo millennio insidioso: pensiamo di essere spregiudicati e capaci di affrontare tutto. Poi, quando gli eventi ci piombano addosso, reagiamo in modo scomposto, non coerente con quello che abbiamo sempre predicato quando quelle cose non riguardavano noi, ma gli altri. Il concetto è ben rappresentato anche nel collage della copertina “Sirena di cuori”, dell’artista Angelo Formica. Questi tempi sono ammaliatori, perché tecnologia e connessioni ci fanno sentire invincibili, ma basta una crepa al guscio che ci protegge ed ecco che i cocci della nostra esistenza si disperdono al vento.

 Ne “Il buco che ho nel cuore ha la tua forma” ci parli di storie legaggti a tematiche tremendamente attuali come omosessualità, schiavitù tecnologica, disagio dei migranti. Da giornalista avrai anche affrontato questi aspetti sotto il profilo della cronaca, credi che parlarne attraverso il racconto possa essere una chiave giusta per aiutare il pubblico a comprenderne le dinamiche?

Più che crederci, lo spero. Nella vita quotidiana il dolore e il disagio altrui ci passano attraverso per pochissimo tempo: quello di una notizia letta sul giornale o sul web, o ascoltata in tv. Poi tutto ricomincia a scorrere veloce, viene archiviato in fretta, quasi niente sedimenta dentro di noi. Il risultato è una specie di anestetizzata indifferenza verso quello che capita, spesso anche sotto i nostri occhi. Raccontare le cose in modo violento, crudo e spietato forse può portare a una riflessione più profonda. O comunque a fermare il pensiero su persone ed eventi che non necessariamente avvengono dall’altra parte del mondo ma magari dall’altra parte del pianerottolo, o dietro la porta accanto. 

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Come dico in Parolibere, l’ultima delle storie del libro, mi sento una specie di mina vagante. Penso che la libertà non consista nel “fare delle cose” ma nell’essere, nel sentirsi, liberi intellettualmente. La mia rotta è la libertà, quindi non so se ci saranno altre parole da dire o se qualcuno avrà ancora voglia di darmi voce. Ho tante idee e cerco di coltivarle ma per ora mi godo la cosa più bella: leggere e ascoltare quello che le persone mi dicono dopo aver letto Il buco che ho nel cuore ha la tua forma. E’ come se quelle pagine venissero riscritte decine di altre volte.

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03/04/15 I passeggeri del mese # , , , ,

I passeggeri del mese: Simona Baldelli

I passeggeri del mese: Simona Baldelli

Oggi parliamo con piacere con Simona Baldelli scrittrice nata a Pesaro, oggi vive a Roma. Il suo esordio è del 2013 con “Evelina e le fate”,  romanzo finalista al Premio Calvino e vincitore Premio John Fante opera prima. Il tempo bambino è il suo secondo romanzo uscito nel 2014. Entrambi i romanzi sono editi Giunti.

Chi è Simona Baldelli?

Va bene, ti rispondo in terza persona, come i matti: “Simona Baldelli nasce a Pesaro, là dove le Marche sfumano nella Romagna.E viceversa. Sa tirare la sfoglia a mano, impastare piadine, fare passatelli. Ha due cagne, Cippa e Olga, che la obbligano ad alzarsi all’alba per andare a scorrazzare per parchi e stagni, e a mettersi al computer ad un’ora decente. Questi, i tratti salienti, il resto è mera cronologia. Ha un diploma d’attrice, esperienze in teatro, radio e cinema. Si occupa anche di regia e drammaturgia. Disordinata per natura e propensione, mette a frutto questa preziosa dote nell’organizzazione di manifestazione ed eventi che, va a capire come, porta comunque a termine. Ama la parola, (pensata, detta, letta, scritta, evocata).” Ho dato un’idea?

Il tuo ultimo romanzo, “Il tempo bambino” edito Giunti, ci racconta una storia di solitudine e di fragilità. Attraverso gli occhi di un uomo che aggiusta orologi e gli occhi di bambine che hanno un’infanzia difficile che le costringe a diventare grandi troppo in fretta. Ci puoi parlare del rapporto tra Mister Giovedì e Regina?

Il rapporto fra i due protagonisti nasce dal bisogno di raccontare che non sempre le famiglie sono un luogo di cura e di amore e che non è vero che “son tutte le belle le mamme del mondo”. Esistono, purtroppo con una certa frequenza, famiglie dove ci si passa di mano in mano il testimone del dolore, una tragica staffetta che a volte finisce negli orrori della cronaca. A volte sono vittime i bambini, a volte madri, mogli, sorelle. Ho voluto inoltre fare una riflessione sull’infanzia, su come la vediamo, in alcuni casi sfruttiamo, le nostre proiezioni sul futuro, insomma. Per raccontare questa realtà “altra” ho cercato di costruire uno spazio molto circoscritto all’interno del quale chiudere tutti i personaggi e richiedendo, al lettore, una buona dose di immedesimazione e di immaginazione, come fossero parte della vicenda. Il lavoro di “immaginazione” (come se i lettori fossero attori che si muovono sulla scena insieme ai personaggi del libro) potremmo riassumerlo così. Immaginiamo quello spazio che, per ogni bambino, rappresenta il mondo. Uno spazio fatto di persone e sentimenti. Aspettative e sogni. Fiducia, rispetto. Un luogo dove le paure diventano sicurezze e, i dubbi, certezze. Dove imparare a diventare grandi. Immaginiamolo confortevole, quello spazio. Abitato da persone sagge, amorevoli e benevole. Che ci proteggono dal buio e da ciò che cattivo. Immaginiamo, per un attimo, che non sia così.Togliamo, in quello spazio, la fiducia e il rispetto. Lasciamo che le paure e i dubbi rimangano tali. Leviamo, ma così, per puro gioco, le persone amorevoli e sagge. Facciamo che restino il buio e le cose cattive. E adesso immaginiamo qualcuno, (io lo chiamo Mr. Giovedì), che è vissuto in uno spazio simile. Per tanto, molto tempo. Un tempo che è passato lento, così lento che non è ancora finito, da non diventare grandi mai. Mr. Giovedì, però, ha imparato a dominarlo, il tempo. L’ha tagliato, sminuzzato, pesato e stimato. Aggiusta e ricostruisce orologi. Mr. Giovedì oggi è un uomo adulto, anche se ha cominciato a rattrappirsi e ha ancora paura del buio. E poi c’è la Regina, che è ancora piccola, anche se vorrebbe sembrare più grande. E lei, invece, vorrebbe che il tempo corresse veloce. Noi non sappiamo se la Regina ha abitato uno spazio amorevole oppure no. Sappiamo solo che ha paura dell’insalata e che non ha mai assaggiato pane, burro e zucchero. E che ha le unghie laccate. Un giorno, si incontrano, fuori dal tempo che noi conosciamo, diverso da quello che abbiamo imparato a sezionare in ore, minuti e secondi. Un tempo che ha alternanze diverse e uniche. È il tempo bambino.

Il tuo primo romanzo “Evelina e le fate”, edito sempre da Giunti, è stato tra i finalisti del Premio Calvino nel 2012 e vincitore del Premio John Fante Opera Prima 2013. Ci puoi raccontare com’è nato questo progetto?

Evelina e le fate, è una storia che mi appartiene da sempre. Evelina è mia madre e, nel ’44, anno in cui è ambientato il mio libro, aveva esattamente cinque anni, come la protagonista della storia. Tutto quello che racconto (fate incluse!) è realmente accaduto o a lei, o ad altre persone che conosco e che ho inserito nella vicenda; il paese descritto, Candelara, è lo stesso in cui mia madre è nata e cresciuta e il casolare dove Evelina vive con la famiglia è esattamente quello in cui è vissuta e che io stessa ho più volte visitato. La voglia di raccontare questa storia mi è venuta qualche anno fa, quando si cominciava a parlare delle celebrazioni per il 150mo dell’Unità d’Italia. Vedendo e ascoltando le molte reticenze al riguardo, i distinguo sull’opportunità o meno di celebrare quella data, le differenze fra chi era “più” o “meno” italiano di altri, ho provato una rabbia grandissima che mi ha fatto decidere di contribuire a quell’evento, nel mio piccolo, raccontando e ricordando uno di quei centocinquanta anni. Per altro, una delle pagine fondanti e principali della storia moderna del nostro Paese. Ma poiché ogni autore che scrive un romanzo “storico”, lo utilizza a metafora del proprio tempo, ho raccontato fatti accaduti settanta anni fa, con la precisa intenzione di parlare di “oggi”.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Scrivere. Sono davvero convinta che il tempo degli scrittori si divida esattamente in due parti: la prima è dedicata alla scrittura, la seconda al tempo che si passa a sognare ad occhi aperti le storie che metteremo su carta. In concreto, sono alle prese con il mio prossimo romanzo che dovrebbe essere pubblicato ad inizio 2016.

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10/03/15 I passeggeri del mese # , , , , ,

I passeggeri del mese: Emilio Marrese

I passeggeri del mese: Emilio Marrese

Oggi parliamo con grande piacere con Emilio Marrese, giornalista, firma di Repubblica e scrittore, nato a Napoli, vissuto e cresciuto a Bologna, da qualche anno abita a Roma. Emilio ha da poco pubblicato con Piemme il romanzo “Il buio ha paura dei bambini”.  E’ anche autore di documentari, con il suo Via Volonté n.9, prodotto da Fandango, ha vinto la sezione dedicata del Rome Independent Film Festival e lo scorso anno, ha raccolto un grande successo con “Il Cielo capovolto – 7 Giugno 1964 lo scudetto del Bologna”, docufilm sull’ultima affermazione nazionale della squadra rossoblu, prodotto dalla Cineteca di Bologna in collaborazione con Rai Eri.

Chi è Emilio Marrese?

Uno che detesta autodefinirsi… Adesso dovrei risponderti con qualcosa di brillante, simpatico, accattivante, giusto? Mi hai già messo in difficoltà alla prima domanda. Me la faccio spesso anche io e non so rispondermi. Proviamo. Dunque. Un giornalista che ogni tanto si diverte a fare altro. Uno che cerca di non prendersi troppo sul serio, mai, il che non significa non fare le cose sul serio, anzi: la leggerezza è una cosa serissima.

Il tuo ultimo romanzo, “Il buio ha paura dei bambini” edito Piemme, racconta la storia di Angelo, bambino costretto dagli eventi a cambiare città. Da Napoli arriva a Bologna. Non è solo la città a cambiare, cambia anche famiglia. La storia di Angelo può somigliare a quella di molti altri. Rifiutati, con difficoltà di integrazione. Come mai hai voluto affrontare queste tematiche dal punto di vista di un bambino? Inoltre volevo sapere da te come definisci “il nero” che serba dentro Angelo?

Mi piace, nella vita così come nella letteratura e nella cinematografia, lo sguardo dei bambini sul mondo: acuto, irriverente, sorprendente, puro, diretto. Mi piacciono i loro occhiali, i loro aggettivi. Tengo a precisare che non si tratta di un manuale di sociologia o pedagogia: è un romanzo, leggero con qualche contenuto, che sfiora alcune tematiche ma che fondamentalmente ha l’obiettivo di catturare e intrattenere, di far spendere bene tre ore di tempo al lettore. Tra i temi che sfiora c’è anche l’integrazione, un’esperienza che ho vissuto di persona, essendomi trasferito a Bologna da Napoli quando avevo sei anni. Quindi sono tornato indietro a ripescare sensazioni, umori, difficoltà, sofferenze ma anche soddisfazioni di quel periodo non semplice. Il “nero” di Angelo è come quello che hanno dentro i polpi: è quella scorta di acido, di cattiveria, che tutti o quasi abbiamo dentro e con cui dobbiamo fare i conti. Quella parte di noi che non amiamo e che spesso ci porta a fare o dire cose sbagliate, brutte, pesanti. Per poi quasi sempre pentircene. Ma per molti è un riflesso o un’esigenza fisiologica: preferisco chi butta fuori, piuttosto di chi tiene tutto dentro. Diffido molto più dei secondi, buoni solo all’apparenza. E anche i bambini sono specialisti nel dire cose terribili, ai genitori, ai maestri, ai professori, ai coetanei. È un sistema di autodifesa, anche, quasi grottesco, innocuo, come fanno appunto i polpi o le seppie se si sentono attaccate: uno schizzo nero di nessuna efficacia, fa quasi tenerezza. Buono per gli spaghetti.

Emilio, non sei solo un giornalista sportivo e uno scrittore, ma hai dato un contributo di grande livello anche nel mondo dei documentari. Il tuo primo lavoro è stato “Via Volontè n.9” per Fandango, mentre nel 2014 è uscito “Il cielo capovolto” per la Cineteca di Bologna, in cui ci hai fatto rivivere l’ultimo scudetto del Bologna Football Club. Scrittura e macchina da presa quindi, in quale dei due mondi ti senti più a tuo agio? Ci racconti in qualche parola com’è nato il progetto de “Il cielo capovolto”?

Sicuramente preferisco scrivere, e infatti anche nei documentari è fondamentale la parte di scrittura, di pensiero che c’è dietro. Mi piacerebbe anche saperle realizzare tecnicamente queste idee, ma a ciascuno il suo mestiere e quindi è giusto che le riprese e il montaggio le effettui chi ha più occhio, capacità ed esperienza. “Il cielo capovolto” è nato nell’estate del 2013 dalla voglia di raccontare quell’impresa in modo originale affondando però mani, testa e piedi negli archivi per entrare nel dettaglio e conoscere anche quell’epoca, quel periodo, non solo sul piano calcistico, allo scopo di realizzare un racconto più caldo, completo, emozionante, romantico di quell’avventura. Immodestamente, grazie a Paolo Muran e Cristiano Governa, posso dire che ci siamo riusciti, a giudicare dalla risposta del pubblico.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Sopravvivere in modo sereno e divertente. Ho quattro o cinque idee per un altro docufilm, sportive e non: vediamo quale si riuscirà a concretizzare.

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Fazzoletto da tasca colorato, occhiali sulla punta del naso per darmi un tono, centomila idee nelle tasche e bollicine nel bicchiere. Questo sono io.
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